«Non potrò più fare molto per i malati»

Fratel Luigi si era sempre distinto per la robustezza e la buona salute. Ma nella primavera del 1975 iniziò a sentirsi molto stanco. Continuava il suo generoso e prezioso lavoro nei reparti, ma fu costretto a rallentare il ritmo, il passo si fece lento, non riusciva neanche più a giocare a pallavolo con i suoi confratelli durante la ricreazione pomeridiana.

Fece gli esami del sangue. L’esito non lasciava molte speranze: leucemia.

Al superiore generale, che un giorno lo accompagnò all’ospedale Molinette per una visita specialistica, fratel Luigi confidò:

Mi rincresce perché non potrò più fare molto per i malati, neanche per la famiglia dei Fratelli; non potrò più aiutarti; per tutto il resto, sia fatta la volontà di Dio fino alla fine, e voglio farla allegramente. Sono questi i momenti della fede.

Fratel Luigi si sottopose a una terapia antileucemica e poi lasciò l’ospedale Cottolengo per un periodo di convalescenza presso il villaggio alpino di Grand Puy, a 1.850 metri d’altezza, un agglomerato di poche baite e una chiesetta con intorno cime di tremila metri, pinete, sentieri solitari e fiori. Era un ambiente che lo esaltava, un contesto di pura natura che gli facilitava la preghiera, da solo o con i confratelli. Ogni mese tornava all’ospedale per qualche giorno per sottoporsi alle visite di controllo.

Dopo un anno la malattia si aggravò, ma la sua serenità non ne risentiva. Ad un amico scrisse: «Per chi ha fede, qualunque cosa, qualunque evento che tocca solamente la parte materiale e non intacca le cose riguardanti l’anima, non abbatte, non preoccupa, non rende triste l’umore, anzi, si può dire tutto l’opposto».

«Un’offerta per il Signore»

Nel diario della Congregazione, alla pagina del 13 gennaio 1977, il superiore generale scrisse: «Da alcuni giorni fratel Luigi soffre di un diffuso eritema cutaneo (…). Febbre costante sui 39-40 gradi. È sereno, prega tutto il giorno; mantiene rapporti d’amicizia incoraggiando gli altri malati della corsia».

A febbraio si aggravò ulteriormente, il suo organismo non rispondeva più alle cure. Fratel Luigi chiese di lasciare l’ospedale Molinette per andare a morire nella sua comunità. Domandò e ricevette l’Unzione degli infermi.

Il 26 febbraio andò a fargli visita l’Arcivescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino.

Intanto la febbre aumentava, insieme ai dolori. Fratel Luigi non riusciva più a deglutire. Una sera disse: «Ho finalmente qualcosa da offrire al Signore».

Quando le cure sembravano non bastare più, alcuni ex assistiti offrirono a fratel Luigi un viaggio in America per sottoporsi a cure speciali. Lui prima si consigliò con il superiore e con alcuni medici, e poi decise: «Non intendo fare un viaggio così lungo in barella per poi morire in America: ho dei doveri verso la mia comunità».

Ma la speranza di una guarigione non veniva meno, e le cure continuavano. Un giorno fratel Luigi disse ad un giovane: «Mi usano troppe attenzioni, non merito tanto».

L’ultimo dono ai sofferenti

Poi la malattia divenne grave e irrevocabile: emorragia interna, febbre altissima, tracheite, crampi allo stomaco. Fratel Luigi era cosciente della situazione disperata:

Non chiedo a Dio né di continuare a vivere né di fare in fretta a morire. A volte mi viene la tentazione di dire ai medici e agli infermieri: “Basta con tante medicine e con certe trasfusioni!”. Ma poi avrei il rimorso. Voglio fare in pace tutta la volontà di Dio.

Al suo fianco c’era la sorella, suor Pia. Il 25 agosto 1977 arrivarono i tre fratelli con le rispettive mogli e i nipoti, appena in tempo per vederlo ancora vivo: proprio quel giorno fratel Luigi terminò la sua vita terrena. Ma nonostante fosse morto, poté ancora aiutare i sofferenti.

Alcuni mesi prima, quando il male stava consumando il suo corpo, fratel Luigi aveva assistito alla televisione ad una intervista a una suora che aveva subìto il trapianto di cornea e ora ci vedeva benissimo: «È meraviglioso! Posso fare del bene anche morendo – esclamò fratel Luigi parlando con un confratello –. Ti chiedo il permesso di dare i miei occhi a qualche non vedente. Gli altri organi non posso donarli perché sono malati, ma gli occhi sì. Sentirò il parere del medico. Mandami qualche incaricato dell’A.I.D.O., ma fa presto, perché la febbre mi uccide». E così avvenne.

Familiari e amici, compaesani ed ex-ammalati provenienti dalla città e dintorni, confratelli e sacerdoti, medici e suore, e soprattutto i poveri e i «buoni figli»: furono in tanti a rendere omaggio alla salma di fratel Luigi composta nella cripta mortuaria della Piccola Casa.

Al funerale parteciparono trenta sacerdoti, tra i quali il parroco di Castellinaldo, e una folla eccezionale. «Evidentemente la malattia e la morte hanno distrutto solo il corpo di fratel Luigi – commentò il dottor Amerigo Brusasco –. Per convincersene basta il suo funerale. Centinaia e centinaia di persone di ogni età, provenienza e ceto sociale; sono lì a pregare e a cantare per lui. Eravamo tutti in lacrime, eppure sembrava una festa».

La malattia e la morte hanno veramente distrutto solo il suo corpo. La memoria rimane, in particolare in quelle persone che venendo a conoscenza della vita esemplare di fratel Luigi, sanno prendere esempio da lui e fanno rivivere in loro l’amore di fratel Luigi per Gesù attraverso il servizio ai sofferenti che incontrano nel quotidiano.